L'amore della mia vita
Ho sempre avuto difficoltà ad affrontare me stessa quando si trattava di sentimenti. Sono nata diminuita. Negarti andava oltre i limiti della giurisdizione del mio cuore. Negarti significava affrontare te, prima di tutto, ma prima ancora me stessa. Ti negavo nella realtà. Senza alcuna possibilità di concludere o voltarmi. Non guardarti più. Una fuga dentro lo specchio. Nel gioco del nascondino, eri lì, sempre in vista – io che non dicevo il tuo nome ma lo facevo dire agli altri, io che non ti cercavo ma gli altri ti cercavano nel mio nome, io che paragonavo il mondo a te e tutti non ti raggiungevano. Volevo una virgola per te. Non volevo un punto per te, per darti l'importanza che avevi. Non volevo che tu l'avessi. Non volevo sapere veramente. Ora capisco il motivo di questa gigantesca negazione. Inconsciamente, la mia anima, che conosce già l'aldilà, l'avanti, il dopo, il futuro, sapeva che ti saresti affrontata, riconosciuta, dopo la virgola, un gergo, un'ode, un impeto di lirismo, una tempesta di lamenti e amore, un dolore più grande della musica mi è sempre venuto da te, si è innalzato sopra di me, e così tanti nomi si sono sovrapposti ai tuoi, così tante speranze nel cancellarti e tu che crescevi, scalavi muri, ti costruivi un muro, un pantheon e io che ti vedevo, dal tuo alluce ai tuoi riccioli, ai tuoi occhi, al tuo petto, sulla tua schiena, dove sono diventata donna, dal grembo che hai guarito quando mi hai reso madre, cos'altro mi resta, se non urlarti i decenni che mi hai rubato, i sogni e le speranze, come bambini che crescono, solo per poi diventare una consapevolezza di non essere eterni, qui al terzo piano.
Ti ho odiata per tutta la vita, al contrario. Senza dire il tuo nome. Sempre all'angolo, nel metro quadro verbale del gridarti contro. Tuttavia, la densità del superficiale, del piacevole, si è impadronita di me, così che ricordarti era l'opposto. Mi ha fatto male. Tu mi hai sempre fatto male. La tua fuga, il problema di fondo, ciò che aveva portato, infine, a tutti i "se" che prendono spazio e crescono, trasfigurando i silenzi, fino a dare vita a false domande e altri ornamenti. Fuggire era rimandare. Fuggire dallo specchio. È vero che ti ho proibito. Mi sono proibito di riesaminare le procedure, i ricordi, lo svolgersi, i disallineamenti che si infiltravano, certo, ma certo, esistevano influenze esterne. Finché ci muoviamo, è in loro tre che succede la merda, sotto le influenze esterne. Quelle interne precedono? O è il contrario? Che importa, che sia solo un altro verso, un altro prisma, un altro scisma, un altro ritornello, ma solo per chi riesce a sfuggire all'esercizio senza dolore e al riparo da altre cose, da altre cause.
Ora che sono cresciuto dentro, che penso fuori dagli schemi in cui mi sono imposto, ora che sono maturato sui muri, nelle volte celesti, guardando la pioggia cadere, generando tempeste, se ci pensi, non c'è più spazio per fughe e fughe se non la tua figura associata al tuo nome. Solo tu. Urano ti ha creato, Giove ha dissolto i tuoi confini e Mercurio ti ha reso un Eremita. Fermo la mia luna qui e mi riservo il diritto di rifiutarmi di essere mercuriale con me. Ti vedo in Nettuno ogni notte. Vado a letto e mi sveglio con te, inconcludente nello spartito che ti assegnerò a quella fuga finale.
Ho portato mille uomini, come disse Neruda alla sua amante, ma a differenza di lei, tu non potevi portarli nei tuoi capelli, né nel tuo sguardo, né nel tuo desiderio, né nel tuo ricordo. Perché era questa pianura arida e macchiata a essere responsabile della tua non eternità, qui al mio fianco, come il gatto alla finestra, come la tua foto che mi guarda appena mi sveglio, a portata di mano delle mie mani stanche, nel vasto campo delle possibilità future, dentro ognuna di esse!
Non è appropriato parlare di sentimenti, né di crepacuore, né di malattie, né di nulla di abbastanza importante da causare danni, come il danno di averti perso nel 1998 e di non aver mai, di fatto, abbandonato la tua figura corporea assente in passato.
Venticinque anni, quasi ventisei anni dopo, tu giri dentro di me, anche se sembri un poscritto. E gettando via i paraocchi, che si traducono in confini, ampliando il paesaggio, continuo ad aggiungere requiem ai miei passi.
Se morissi domani – ovvero se sparissi fisicamente, sì, domani o dopodomani, uno di questi giorni – diventerai il mio requiem, comporrai il mio requiem, e se non lo farai, forse diventerò come un fantasma dell'opera, che vivrà nella tua soffitta, battendo il tuo mignolo del piede, emettendo repressioni e suoni, a volte monotoni, a volte pieni di ottave di Re, come catene che si trascinano in un eterno valzer. Poserai la tua testa in grembo a lei, sul bracciolo del divano, nel fresco di un tardo pomeriggio, o a cena, in una bella colazione autunnale, dove, ascoltando il fiume, una fontana, il suo lamento, il suo grido sottovalutando la tua intelligenza, in assenza di concupiscenza o in se stessa, lì mi rivisiterai, ancora viva, in quel diario delle mie ombre e riprodurrai un sospiro di noia e desiderio che, forse, è solitario e solo tu lo riconosci come il mio fantasma, o chissà, forse lei può, senza che tu dica nulla, identificare che sono io che ti perseguito, che avendomi lasciato dall'altra parte dell'oblio, combattendo e negandomi, come si fa solo con un grande amore, non mi hai, in effetti, dimenticato e io sono più vivo del suo corpo che, toccandoti, non produce più che un leggero fastidio nella tua sonnolenza, e di nascosto, senza poterti vedere, la tua ombra, andrai al libro di elettronica, al vecchio cellulare, al nascosto foto, controllando e confermando che esisto ancora dentro di te, un fantasma, con le fossette sul viso per un sorriso che davvero non hai dimenticato, con uno sguardo che solo tu hai visto e che non puoi cancellare, e confermi che quel vestito, quel colore, allora eri felice, eri felice e ti sei negata la possibilità di essere di nuovo felice. Per colpa sua, o per colpa di tutti gli altri. Perché non eri più la stessa, non eravamo più gli stessi. Non torneremmo mai più nel luogo che ci ha resi felici un giorno, molti giorni, molti anni, sarebbe una follia ripetere, anche solo tentare di farlo, che dare valore all'amore sarebbe un'orribile iperbole, se solo fosse una concupiscenza, che fosse più o meno come viveva tuo padre, sì, che sì, molto più facile, sarebbe peggio di una scorciatoia, abbreviare la vita in quel modo, anzi, abbreviarla in quest'altro, che sei nella zona di comfort, che è la cosa più vicina al disagio di non essere veramente te stesso, ma ora che il tuo corpo chiede riposo, che nei sogni me l'hai già detto, vorresti avere una lampada di Aladino e, quando gli accarezzi la pancia, che da quel bordo apparisse il mago e tu potessi esprimergli i desideri, gli chiederesti di lasciarti tornare al millenovecentottantacinque. E se tornassi indietro, forse vorresti andare direttamente al duemilaventuno e chiamarmi di nuovo, saresti certamente breve, con poche parole come prima, e dopo avermi preso in braccio, portato con me, mostratomi quello che hai mostrato a lei, con entusiasmo, forse, se avessi imparato qualcosa, nel duemilaventuno, forse mi faresti la domanda giusta, e non un mucchio di vaghe, e forse, e dico forse, senza troppa certezza, con qualche dubbio che il tuo silenzio ha criptato, mi sembra di tagliare spicchi di anguria con le dita, e risponderei alla giusta quantità di tutte le cose che mi hai chiesto e, forse non sarei scappata via, forse non sarei caduta a terra, o non avrei rotto il cellulare, forse non saresti rimasta incastrata in me come l'insonnia, come una fottuta emicrania, come una menopausa piena di sintomi e proliferata di desiderio ed edemi della passione che provo ancora per te. E potrebbe finalmente racchiuderti, intermittenza o pausa, o dolore, opulenza, protuberanza, acquiescenza, riluttanza. Che questo anelito sia la scienza che Dio ha creato per incubarti nella reminiscenza corpuscolare dell'agape che ti dedico, solo a te che sei molto più di Pablo Milanés o Pablo Neruda, che moltiplico e riduco al nulla, che è già tutto ciò di cui gli angeli mi hanno ricoperto dal giorno in cui ti ho visto.
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